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I dibattiti e le controversie sulle MGF nascono già a livello terminologico. Sappiamo infatti che esistono vari termini nei linguaggi locali per nominare e definire le pratiche, tra i quali quello di "circoncisione femminile" è il più diffuso. In contrasto con il parallelismo che questo termine istituisce con la meno invasiva circoncisione maschile, e per sottolinearne al contrario la connotazione violenta, le agenzie internazionali della salute hanno adottato il termine "mutilazioni", oggi il più conosciuto.
"Mutilazioni dei genitali femminili" non è dunque una definizione neutra ma è storicamente situata, essa si è infatti affermata a partire dagli anni '70, contestualmente alla progressiva conoscenza di questa pratica da parte delle agenzie della salute occidentali. Istituzionalmente questo nome viene adottato nel 1990, nel corso della III Conferenza del Comitato Inter-Africano sulle pratiche tradizionali rilevanti per la salute di donne e bambine/i (IAC), tenutasi ad Adis Abeba; successivamente, a partire dal 1991, su raccomandazione dell'OMS, esso viene adottato in tutti i documenti delle Nazioni Unite.
La parola "mutilazione", che implica una connotazione negativa della pratica, un giudizio e una condanna, è stata scelta consapevolmente proprio per indicare la gravità dell'atto distinguendolo dalla circoncisione maschile, meno invasiva e non invalidante, e per connotare l'impegno militante delle agenzie della salute a contrasto di una pratica considerata una violazione dei diritti umani.
Tuttavia, nel corso degli anni, si è fatta strada una riflessione critica riguardo alla opportunità di utilizzare un termine come "mutilazione", fortemente connotato come negativo e stigmatizzante. Infatti, in particolare le ricerche antropologiche hanno sottolineato il potenziale etnocentrismo insito nei termini che si utilizzano per riferirsi a pratiche appartenenti a culture diverse: per le popolazioni locali, i genitori e le nonne non stanno "mutilando" le proprie figlie ma stanno proseguendo una tradizione che garantirà loro un inserimento adeguato nella società.
Su questo si è animato un dibattito tra due parti opposte. Da un lato, gli approcci più femministi e più militanti, attivamente coinvolti nella promozione di interventi di contrasto alle MGF, hanno insistito sulla necessità di inscrivere nella terminologia utilizzata il giudizio negativo nei confronti della pratica, utilizzando anche il linguaggio al fine di sradicarla. D'altro lato, gli approcci più critici sul piano interculturale hanno sottolineato i rischi e l'inopportunità di un atteggiamento stigmatizzante: sia per il rifiuto che esso può suscitare in chi lo riceve e si sente giudicata, innescando una reazione di resistenza culturale che può anche aumentare la perpetuazione della pratica sulle bambine; sia per il rispetto dovuto ai modi di pensare diversi e per la necessità di una gradualità del processo di cambiamento.
Dalla fine degli anni '90 anche nelle medesime Organizzazioni Internazionali che avevano promulgato il termine di "mutilazione", si è affermata l'espressione sostitutiva di "Female Genital Cutting" o "taglio", decisamente più neutrale, senza giudizi stigmatizzanti e più rispettosa delle definizioni locali. L'UNICEF e altre agenzie hanno trovato una mediazione tra l'esigenza di salvaguardare la sensibilità delle persone interessate e quella di esprimere comunque un giudizio negativo nei confronti delle pratiche attraverso l'espressione Female Genital Mutilation/Cutting (FGM/C), tradotta in italiano con Mutilazioni Genitali Femminili/Escissioni (MGF/E).
Ultimo aggiornamento: ottobre 2023
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